Due macchine una strada
“New York, aprile del 1951. Le dita dello scrittore battono velocemente sui tasti di una macchina da scrivere. È un trentenne americano che racconta a modo suo di un viaggio fatto qualche anno prima. Le parole lo trovano senza che lui debba perdere tempo a cercarle. Deve solo metterle nero su bianco prima che lo travolgano e si perdano nella stanza. Per questo il ritmo della scrittura è forsennato e il ticchettio incessante. Perfino la carta che ha scelto sembra ubbidire al bisogno di dire qualcosa di diverso, di dirlo in fretta e senza fermarsi mai, nemmeno per cambiare pagina: un rotolo da telescrivente che alla fine del romanzo avrà una lunghezza di 36 metri e decine di anni dopo sarà venduto all’asta per più di 2 milioni dollari.
Sal, we gotta go and never stop…
Sal, dobbiamo andare e non fermarci mai finché arriviamo.
Finché arriviamo dove, amico?
I don’t know, but we gotta go… Non lo so, ma dobbiamo andare.
E anche scrivere, scrivere, scrivere, è scrivere senza fermarsi mai. Scrivere cosa? In fondo è come andare: non importa dove, cosa, importa come. Importa che bisogna andare, importa che bisogna scrivere.”
(Dall’articolo di Saverio Paffumi pubblicato su Panorama ICON – ottobre 2016)
Avete capito che si parla di Jack Kerouac, il mitico autore di “On the road”, bibbia della Beat Generation. Era uno degli scrittori più rapidi nel battere a macchina, in grado di superare le 100 parole al minuto. Così scrisse il suo libro del cuore sotto forma di dattiloscritto, usando un rotolo di carta per telescrivente venduto all’asta da Christies nel 2001 per quasi 2 milioni e mezzo di dollari. La velocità, l’impeto, l’istinto, sono la cifra stilistica di “On the road”: la macchina da scrivere, quindi, come osserva Paffumi nell’articolo, “è stata qualcosa di più di un semplice strumento meccanico, è stata il mezzo che ha consentito all’ispirazione di sfogare tutta la sua potenza. Scritto con una matita, o una penna stilografica, non sarebbe stato lo stesso romanzo. Il mezzo è parte integrante del contenuto, fa parte dell’opera letteraria. Una macchina con quattro ruote e motore a benzina per attraversare l’America coast to coast, una macchina con tanti tasti per raccontarlo al mondo”.
L’intuizione di H. Marshal Mcluhan
È importante notare che il sociologo e filosofo canadese Herbert Marshal McLuhan (1911 – 1980), alla macchina da scrivere ha dedicato un intero capitolo della sua opera più famosa, “Gli strumenti del comunicare” (Understanding Media – The Extenction of Man, 1964), citata spesso nelle analisi sulla televisione e altri “mezzi”. In quegli anni questo strumento era all’avanguardia, da un punto di vista tecnologico, e stava raggiungendo la sua massima “maturità”, da un punto di vista ingegneristico e del design (per quanto su di noi i modelli più antichi continuino ad esercitare un fascino irresistibile). Grazie alla macchina da scrivere, osserva McLuhan, “la tecnologia di Gutemberg è arrivata in ogni angolo della nostra cultura e della nostra economia”. L’uniformità e l’ordine con cui ripartisce i caratteri, incrementano il bisogno di ordine sintattico, lessicale, perfino “mentale”.
Agli albori della storia industriale della macchina da scrivere un grande scrittore come Henry James comincia a dettare le sue opere a una dattilografa e non è più in grado di scrivere se non con questa modalità. Declama passo passo alla fidata Theodora Bosanquet le frasi dei suoi romanzi e lei dal 1907 in poi, sempre più abile nonostante la grossa Remington ancora primordiale e non troppo docile, li scrive a macchina riga per riga. Theodora racconterà nel suo libro di memorie (“Henry James al lavoro”, Castelvecchi editore) che lo scrittore sul letto di morte vorrà ancora sentire il suono dell’amata macchina da scrivere.
L’influsso sulla poesia
L’americano Charles Olson (Worcester, 1910 – New Tork, 1970), definito anche il poeta delle Black Mountains scrive: “Il vantaggio della macchina da scrivere per la sua rigidità e la precisione degli spazi, può, per un poeta, indicare esattamente il respiro, le pause, perfino le sospensioni delle sillabe, la giustapposizione di parti o intere frasi. (…) Per la prima volta egli può, senza la convenzione di rime e metrica, registrare l’ascolto che ha fatto con il proprio ‘speech’ e tramite ciò indicare come vorrebbe che altri lettori dessero voce al suo lavoro.”
E ancora McLuhan, a proposito del rapporto macchina da scrivere-poesia, aggiunge: “Seduto davanti ad essa, il poeta improvvisa come un musicista jazz, vive l’esperienza dell’esecuzione quale composizione. Nel mondo non alfabeta si sarebbe trovato nella stessa situazione il bardo o il menestrello, il quale aveva molti temi ma non il testo. Con la macchina da scrivere il poeta governa le risorse della stampa tipografica… può danzare come Nijnsky o strisciare i piedi e saltellare come Chaplin…” Comporre versi quando soffia il vento dell’ispirazione diventa “come far volare un aquilone”. Esattamente come il volo dell’aquilone, ondeggiano i versi di Edward Estlin Cummings (1894 – 1962): li batteva con la sua Royal in modo che oltre a un senso e un suono, avessero anche una “forma”.
Giornalisti, scrittori e non solo
Il primo “personaggio” che si può legare alla macchina da scrivere è il giornalista e senatore statunitense che più di ogni altro ha contribuito alla sua stessa invenzione e messa a punto, ovvero Christopher Latham Sholes (1819 – 1890; vedi la storia), uno dei padri di questo strumento. Molto più che un semplice utilizzatore, ebbe nella figlia Lilly la prima collaudatrice e “dattilografa”.
Mark Twain fu probabilmente, come lui stesso scrisse, “la prima persona al mondo ad usare la macchina da scrivere in letteratura, avendo fatto copiare il mio manoscritto nel 1874”. Si riferisce a “Le avventure di Tom Sawyer”, pubblicato nel 1876. La Remington approfittò di un testimonial eccezionale come Mark Twain per vari decenni! Da allora in poi, soprattutto nel Novecento, è difficile immaginare un grande scrittore, o un grande giornalista, senza la “sua” macchina da scrivere.
Dalla Royal di Truman Capote e George Simenon, costruita a Brooklin, alla Royal Portable di George Orwell; la Remington Portable No. 2 di Agatha Christie; la Smith Premier 10 di Jack London, la Hammond di Lewis Carroll, la Oliver di Kafka, la Underwood di Virginia Woolf e Francis Scott Fitzgerald; la Royal Quite De Luxe di Jan Fleming placcata in oro, clamorosa e spettacolare; l’italiana Everest (poi assorbita da Olivetti nel ’67) di Ezra Pound; la Remington di Matilde Serao; l’Olympia SG di Bukowski e l’Olympia SM-3 deluxe che Woody Allen ha sempre usato da quando aveva 16 anni. Un documentario del 2011, visionabile su Youtube, mostra Woody Allen, a casa sua, mentre spiega che con questa fedele compagna ha scritto tutte le sceneggiature, gli sketch, gli appunti, aiutandosi, per i taglia-copiaincolla, di strumenti come forbici, taglierini, colla, punti metallici… “Tutto ciò è molto primitivo, lo so”, dice estraendoli dal cassetto della scrivania, “ma funziona molto bene, per me”.
Anche Stanley Kubrick era molto legato alla sua macchina Triumph-Adler Tippa gialla del 1960, con la quale scrisse fra l’altro la sceneggiatura di Shining.. Lo sospendiamo a malincuore.
Tra le portatili alcuni modelli hanno fatto storia, come la minuscola Corona n. 3 (del 1912) con la quale Karen Blixen scrisse “La mia Africa” al ritorno dal Kenya. Lo stesso modello che Ernest Hemingway ricevette in regalo dalla fidanzata quando compì 22 anni. Gli fu rubata e non si dette pace finché, più avanti negli anni, si sarebbe legato alla Hermes Baby della fabbrica svizzera Paillard. Anche John Steinbeck possedeva una Hermes Baby: disegnata dall’italiano Giuseppe Preziosi, pesava quattro chili ed era alta sei centimetri: più piccola e più leggera delle concorrenti, venduta a 160 franchi, era alla portata di tutti. Fece la fortuna della Paillard.
Bellissima anche la MP1 dell’Olivetti disegnata da Aldo e Adriano Magnelli, compatta ed elegante, prodotta dal 1932 in vari colori. Camilla Cederna la scelse rossa fiammante, quasi un “rosso Ferrari” (l’originale appartenuta alla grande corrispondente e inviata de l’Espresso è conservata nel nostro Museo ed è stata esposta al Palazzo Reale di Milano nel 2016 in occasione della mostra sui 60 anni del settimanale).
Collocata al MoMA di New York fra gli oggetti che hanno fatto la storia del design italiano, preferita per la sua leggerezza e facilità d’uso, ecco la lettera 22, indissolubilmente legata all’immagine di Indro Montanelli che non se ne separava mai e ne possedeva più di un modello. Ma fu anche la macchina di Pier Paolo Pasolini, di Enzo Biagi, dei primi romanzi di Andrea De Carlo e di innumerevoli altri.
L’inviato con lettera 32
È diventata celebre, nelle sale stampa dei più raccontati avvenimenti sportivi, la Lettera 32 che Gianni Mura, giornalista de La Repubblica e scrittore, continua tutt’oggi a preferire al computer. Lanciata nel 1963 (anche Bob Dylan ne aveva una) è un modello migliorativo della 22 da cui ha ereditato il design simile e gli aspetti funzionali.