Facciamo un pò di storia.
Sino a circa 10.000 anni fa l’uomo era organizzato in tribù nomadi, all’interno delle quali dominavano le donne, con la loro forza creatrice e la crescita della prole. L’uomo si dedicava alla raccolta delle erbe e frutti naturali e alla caccia. Possiamo definire quelle tribù rette dal matriarcato rivolto principalmente alla sopravvivenza e alla crescita di nuovi membri, che davano forza e importanza alla tribù.
Lentamente si diffonde il culto della “dea madre”, la dea dell’aurora, del mattino, dell’origine di tutte le cose, compreso l’inizio della vita e della fertilità. I Sumeri la chiamano Inanna, Inna, Ininni.
Abbandonate le capanne si formano le “città stato” e i “regni”. A Ninive, la capitale del primo Regno Assiro, nasce il culto della dea Ashtart, che dilaga in tutto il Mediterraneo, trasportata dai Fenici e assumendo altri nomi, come Anat, Asirat, Tanit. Quando diventa greca e romana i nomi si arricchiscono di suoni dolci, inserendo le vocali che mancavano nell’alfabeto fenicio, e si chiamarono: Astarte, Iside, Cibele e Rea.
Con gli etruschi in Italia Meridionale, e particolarmente nella Campania Felix (perché fertile), prende il nome di Mater Matuta, e vengono eretti templi, dove le donne portano doni votivi per propiziarsi molte nascite, le future braccia necessarie a coltivare la fertile pianura campana. La donna acquistava importanza dal numero della prole che riusciva a mettere al mondo. A Capua, l’antica città degli “ozii” che destabilizzò l’esercito di Annibale e lo preparò alla disfatta di Canne, esiste un interessantissimo Museo dedicato alla Mater Matuta, creato con i reperti ricavati da un tempio etrusco locale, risalente al primo millennio a.C.
Ma la società organizzata in Stati produce lotte e guerre di supremazia e l’uomo con la sua forza assume il dominio anche nei confronti della donna.
Il medioevo rappresenta il periodo più buio sotto questo aspetto: le continue invenzioni ad opera principalmente dell’uomo segnano un solco sempre più profondo tra l’uomo e la donna.
Ma poi la svolta. Alla fine dell’800 arriva la MACCHINA DA SCRIVERE, che ribalta la situazione offrendo spazio alle donne, desiderose di dimostrare le proprie capacità, anche fuori dalla vita domestica.
La Lilly e le donne dattilografe
Il ruolo della donna all’interno degli uffici per affiancare l’uomo, nel disbrigo degli impegni amministrativi, era stato capito negli Stati Uniti sin dalla fine del secolo diciottesimo. Il primo fu il giornalista e poi senatore degli USA, Christopher Lathan Sholes, con alle spalle una lunga esperienza lavorativa, prima come aiuto tipografo e poi alla direzione di giornali nel distretto di Milwaukee, nello Stato del Wisconsin. Senatore a circa quarant’anni, volle dedicare gli ulteriori anni della sua vita alla fabbricazione di una macchina che scrivesse con i caratteri mobili inventati di Johan von Gutenberg nel 1450, senza usare la penna e il calamaio e senza una tipografia alle spalle, ma in maniera diretta ed immediata.
Contrariamente alle sue aspettative l’operazione fu molto laboriosa e richiese la produzione e la registrazione di oltre trenta modelli, prima di ottenere intorno al 1880 un buon risultato con la sperimentazione di una macchina a battuta non visibile da parte dell’operatore, chiamata The Calligraph e prodotta a New York. Ma chi era in grado di testare i suoi modelli, considerato che non esistevano ancora i dattilografi? Il signor Sholes aveva una giovane figlia di circa diciotto anni, di nome Lilly, che chiamata a usare i prototipi ideati dal papà, dimostrò subito una spiccata manualità e grande capacità di attenzione.
Bene! In questo nuovo ruolo Christopher si avvale sino alla fine delle sue ricerche della giovane Lilly, che fu la prima dattilografa della storia e fu anche la donna che introdusse l’elemento femminile negli uffici, come valido aiuto all’uomo anche nel disbrigo dei lavori amministrativi. Nasce così negli Stati Uniti il nuovo mestiere di “dattilografa” e si diffonde rapidamente con la stessa rapidità dell’affermazione della macchina da scrivere, divenuta attrezzo indispensabile nella comunicazione scritta e nella contrattualistica.
I dirigenti della Comit, costituita a Milano nel 1894 nei vari viaggi effettuati negli Stati Uniti per allacciare relazioni di corrispondenza con banche e ditte locali, per porre le basi all’apertura di una propria filiale a New York, che avvenne nel 1918, ebbero certamente l’opportunità di vedere al lavoro le signorine americane impegnate a scrivere a macchina e allora capirono di poter inserire nel proprio organico anche personale femminile. Ciò si verificò particolarmente negli anni della prima guerra mondiale, quando molti giovani impiegati furono chiamati alle armi, lasciando scoperti i propri posti di lavoro. E ancor di più una volta terminata la guerra e avere intensificato i rapporti commerciali con gli USA, da cui venivano importate numerose macchine da scrivere Remington e Underwood. In Italia nel 1911 era uscita da Ivrea la prima Olivetti, ma inizialmente la sua produzione era insufficiente a soddisfare le richieste, perché la macchina da scrivere penetrava velocemente negli uffici.
Effettivamente le donne, dopo un breve corso, venivano sempre più utilizzate come dattilografe nel periodo 1914-18, assunte temporaneamente in sostituzione dei colleghi partiti per il fronte. Nelle Poste, negli uffici statali, nelle banche, nelle assicurazioni. Tra le prime impiegate dattilografe alla Comit spicca il nome di Rita Montagnana (1895-1979), assunta in qualità di apprendista presso la filiale di Torino dal febbraio al dicembre del 1916, ventidue anni dopo la costituzione. Si tratta della prima moglie del più importante segretario del Partito Comunista Italiano, Palmiro Togliatti, e figura di spicco della politica italiana nella prima metà dello scorso secolo. Uscita dalla Banca s’iscrisse al Partito Socialista, fu tra i fondatori del P.C.I. e nel 1924 sposò Palmiro Togliatti, insieme al quale emigrò nell’Unione Sovietica e poi ritornò in Europa per prendere parte alla guerra di Spagna nel 1936. Deputata della costituente nel 1946 e poi senatrice, fondò l’Unione Donne Italiane e fu anche l’organizzatrice delle prime feste della donna il giorno dell’8 marzo.
La Grande Guerra diede l’opportunità alle donne di dimostrare attraverso la dattilografia le proprie qualità entrando massicciamente ad occupare ruoli sino ad allora riservati agli uomini. Cambia la vita, cambia la moda e anche la donna lavoratrice finalmente assume un aspetto elegante, seguendo la moda e un abbigliamento più adatto ai lavori d’ufficio. Le gonne lunghe e strette non si prestano più alla praticità richiesta delle nuove attività femminili negli uffici e quindi le gonne diventano più corte e più larghe. La donna con uno stipendio e a fianco di impiegati in abito grigio, camicia bianca e cravatta, vuole essere al passo con i colleghi: i capelli vengono accorciati e curati spesso ed i colletti di pizzo che indossava la Lilly americana, soppiantati da colli a triangolo che scoprono il décolleté. E infine ai piedi indossano moderni stivaletti di pelle, calzatura allora molto ambita dalle donne che si proiettano verso uno stile di vita molto diverso da quando lavoravano solo in ambito domestico e aiutando nei lavori dei campi.
Nascono così scuole specializzate per insegnare a scrivere a macchina, frequentate quasi esclusivamente da giovani donne desiderose di entrare in un ambiente di lavoro a fianco dell’uomo. A questo punto nasce la donna moderna che può aspirare a tutte le cariche sociali, frequentare le università e svolgere lavori sino ad allora impossibili. Inizia da qui il percorso di emancipazione che oggi in occidente ha raggiunto livelli impensabili sino a pochi anni fa.
Inizialmente venivano impiegate solo donne giovani, non sposate e comunque senza bimbi.
Come abbiamo già visto, le prime assunzione furono a tempo determinato ed in sostituzione del personale chiamato alle armi, ma dopo questa positiva esperienza il personale femminile veniva utilizzato ed apprezzato sempre più, particolarmente adatto in lavori di segreteria e di rappresentanza. La donna diventa più elegante in tutti i sensi, cura molto di più la sua persona e migliora nel complesso l’assetto degli uffici, mettendo in evidenza sempre più le proprie doti organizzative.
Ma negli uffici c’era bisogno anche di personale efficiente e sempre presente, mentre la donna in età matura e mamma poteva avere necessità di curare i figli e la famiglia, non essendo ancora diffusi gli asili, i nidi e i campi estivi. Per questo motivo per molto tempo, sino agli anni ’60, nelle clausole contrattuali di assunzione delle ragazze era compresa quella che prevedeva l’obbligo di lasciare il lavoro in caso di matrimonio.
Per aggirare questa condizione più delle volte la coppia, all’interno della quale c’era una donna impiegata, preferiva vivere “more uxorio”, la classica coppia di fatto, per non essere costretta a lasciare l’impiego.
Grazie alla “macchina da scrivere” e per fortuna e volontà dell’Umanità, questa fase della storia è superata e ci auguriamo che sia foriera di sempre nuove conquiste per un MONDO PIU’ GIUSTO E PIU’ EQUO.
Proloco di Muggiò, 28 febbraio 2018